Il burn-out è una sindrome tipica delle professioni coinvolte nelle relazioni di aiuto; è una reazione emotiva, cognitiva e comportamentale di progressivo allontanamento da una fonte di malessere. Lavorare in determinati ambiti infatti non è sempre facile, le componenti stressanti, ovvero gli “stressors” con cui ci si confronta, possono portare ad un logoramento professionale, emotivo, psichico, provocando delle alterazioni sull’efficacia lavorativa e sul rapporto con l’utenza.
Si rende nota la presenza del bo negli anni ’70, quando i rapporti familiari e sociali cambiano andando verso una dimensione più privata, mettendo in secondo piano in gruppo informale e delegando le funzioni di sostegno esclusivamente alle istituzioni pubbliche.
Maslach e Jackson definiscono il bo come un costrutto caratterizzato tipicamente da tre dimensioni:
· Esaurimento emotivo: sensazione di essere svuotati, logorati, inariditi;
· Depersonalizzazione: atteggiamento distaccato, cinico, ostile, freddo dell’operatore nei rapporti con l’utenza;
· Ridotta realizzazione personale: percezione della propria inadeguatezza nel lavoro.
Oltre lo stress, le cause che possono provocare tale stato alterato vanno ricercate anche alla prospettiva di importanza che viene data all’attività lavorativa; infatti, spesso vi è una vera e propria etica della consacrazione delle helping professions, secondo cui la persona che vi si dedica raggiungerebbe il senso della propria vita. Il lavoro è il centro del proprio mondo, se fallisce si è falliti in tutto e soprattutto nel proprio progetto personale. Si tratta di molteplici professioni, dall’insegnante allo psicologo, sino all’infermiere; tipico di queste professioni d’aiuto infatti è contribuire alle modifiche di un’altra persona e della relazione in cui sono coinvolte attraverso tecniche specialistiche e attraverso la propria preparazione e professionalità. Per Rogers si tratta di una relazione in cui uno dei due ha lo scopo di promuovere nell’altro la crescita, lo sviluppo, la maturazione nei processi di adattamento e di risoluzione dei problemi che da sola non è in grado di affrontare.
L’operatore della professione d’aiuto è una persona che deve porre continuamente se stesso come catalizzatore dei processi di crescita dell’altro, per cui c’è il rischio di una prolungata situazione di stress lavorativo; le conseguenze sono dunque, una ridotta produttività, deterioramento delle relazioni con utenza e colleghi, alterazione dell’equilibrio emotivo. Ci sono però, alcune “tecniche” che l’operatore può mettere in atto per contrastare l’insorgenza del bo:
Ø Personalizzare l’aiuto, per cui ogni caso è a sé;
Ø Lasciare libera espressione delle sensazioni del cliente;
Ø Impegnarsi autenticamente ma evitando il coinvolgimento emotivo;
Ø Astenersi dal giudizio;
Ø Mantenere il segreto professionale;
Le condizioni interne di personalità del lavoratore si intersecano con quelle dell’ambiente in cui lavora, per cui fattori predisponenti possono essere: soggetti sensibili, eccessivamente empatici, idealisti. Gli ambienti maggiormente “a rischio” sono: pronto soccorso, terapia intensiva, oncologia, patologie croniche, dipendenze, disturbi psichiatrici…dipende molto dunque dal tipo di mansione, durata, contesto.